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DI COSA PARLIAMO QUANDO DICIAMO "EFFETTO PLACEBO"?

 

 

Lo stato attuale delle nostre conoscenze sull’effetto placebo non consente generalizzazioni scientificamente corrette nell’uso di questo termine.

Tuttavia esso è largamente adoperato nella scienza corrente e nella divulgazione da coloro che, evidentemente, non si rendono conto che adoperano tale dizione in un modo semplicemente suggestivo.

 

Di seguito, l’abstract di un recente lavoro riassuntivo sulle conoscenze scientifiche sull’effetto placebo proposte dagli Autori biomedici più accreditati sull’argomento.

 

“La nostra comprensione e concettualizzazione dell'effetto placebo si è spostata dall’enfasi riguardo il focus sul contenuto inerte di un agente placebo fisico alla simulazione generale di un intervento terapeutico. 

La ricerca ha identificato molti tipi di risposte placebo guidate da meccanismi diversi a seconda del contesto particolare in cui viene somministrato il placebo. 

Alcune risposte al placebo, come l'analgesia, sono iniziate e mantenute dalle aspettative di cambiamento dei sintomi e cambiamenti nella motivazione-emozioni. 

I fattori placebo hanno basi neurobiologiche ed effetti reali sul cervello e sul corpo. 

Non sono solo pregiudizi di risposta. 

Altre risposte al placebo derivano da processi meno consapevoli, come il condizionamento classico nel caso di funzioni immunitarie, ormonali e respiratorie”.

DD Price, DG Finniss, F. Benedetti   Annu. Rev. Psychol. 59, 565-590

 

L’articolo si sofferma ampiamente sui correlati cerebrali umani legati ai tipi di “risposta placebo” esaminati, mantenendo la divisione convenzionale tra meccanismi fisiologici e psicologici.

Nel loro lavoro, gli autori si limitano a studiare i primi e, riguardo i secondi, così si esprimono:

 “A livello psicologico, resta ancora molto lavoro da fare per districare i meccanismi psicologici che possono guidare queste comuni attivazioni ed effetti placebo”[1].

E concludono in questo modo: “Chiaramente, resta da chiarire una spiegazione psicologica completa degli effetti placebo”[2].


I migliori autori biomedici non colgono la loro “ingenuità epistemologica” del muoversi all’interno di un paradigma dicotomico fortemente riduttivo, dentro cui possono rilevare soltanto i dati che si riferiscono a due ambiti convenzionali di studio definiti a-priori: la fisiologia umana in termini biomedici e la psicologia umana come studio della psiche in termini convenzionali.

I postulati impliciti assunti nel loro studio possono soltanto consentire l’accesso ai dati che tali postulati considerano.

Poi si tratterà, come bene essi affermano, di provare a mettere insieme questi dati in un modello integrato.

Non è dato di capire in cosa dovrebbe consistere un tale modello, ed è significativo che essi non ne trovino affatto le basi nella loro concettualizzazione dicotomica.

 

La realtà ha ampiamente dimostrato che il funzionamento umano biologico e quello psicologico sono due parti dello stesso fenomeno.

Ovvero, in termini concreti, che i dati oggettivi biologici e quelli soggettivi psicologici sono due effetti contemporanei dello stesso fenomeno.

Questa realtà è accettata ancora solo teoricamente in Biomedicina ed in Psicologia, pertanto entrambe queste scienze non possono sistematizzare modelli pratici per lo studio scientifico di un fenomeno come quello del placebo che è interamente unificante degli aspetti biologici e psicologici.

 

La cosa importante che qui voglio fare rilevare è che lo scenario scientifico cambia drasticamente se l’osservazione viene condotta in termini interdisciplinari, aggiungendo ai dati biologici e psicologici quelli provenienti dalla fisica e dalla biofisica attuali.

 

Il motivo tecnico per cui un’osservazione interdisciplinare appare difficoltosa è che il Metodo Scientifico classico conduce un’osservazione solo in terza persona[3], sia delle funzioni biologiche che di quelle  psicologiche[4]. Le evidenze riguardanti le Forze di natura fisica, invece, coinvolgono l’osservatore nell’osservazione, devono cioè essere studiate sia oggettivamente, sia soggettivamente, sia nelle loro interazioni (in terza, prima e seconda persona).

 

In caso di indagine interdisciplinare, la Biomedicina dovrebbe accettare il concetto fisico di “campo quanto-elettrodimanico di interazione”[5] e, pertanto, osservare e recepire i dati corrispondenti. In pratica si tratterebbe di accettare che tutte le interazioni chimiche avvengono nell’ambito di interazioni quanto-elettrodidamiche, come in effetti è.

 

Anche la Psicologia dovrebbe andare oltre l’analisi puramente descrittiva delle funzioni mentali e comprendere che la loro qualità è correlata a specifiche qualità dello stesso campo quanto-elettrodinamico. Ad esempio, fra gli “aspetti psicologici” evidenziati dagli autori prima citati c’è la “attenzione”; avremmo dati molto più precisi se si studiassero i “correlati di campo” di tale aspetto di coscienza, differenziandolo dalla “intenzione” che implicitamente od esplicitamente sempre accompagna l’attenzione.

 

Potremmo nella nostra scienza (almeno per un po’) ancora mantenere la convenzionale distinzione dicotomica a-priori tra corpo e mente, ed anche il modello meccanicistico cerca di descrivere le loro interazioni, ma dovremmo comunque potere ampliare l’universo dei dati osservabili, dei quali altre scienze limitrofe hanno evidenza[6]. In caso contrario, ci scontreremmo con la povertà del paradigma biomedico e psicologico, incapaci di accogliere perfino dati provenienti da matrici postulari analoghe come quelle biofisiche.

 

In conclusione, il problema che si pone per la Biomedicina, per l’Omeopatia o per la Psicologia è identico: la loro capacità di accogliere e integrare, attraverso il proprio Metodo Scientifico, anche osservazioni di altre Scienze; altrimenti potranno pur fare finta di essere conoscenze interdisciplinari, ma resteranno in pratica autoreferenziali.

 

 

DALL’EFFETTO PLACEBO ALL’EFFETTO DI CAMPO IN MEDICINA

 

La pratica della Biomedicina (Medicina corrente) e della Medicina Omeopatica sono parimenti interessate a distinguere l’effetto specifico dei rispettivi medicinali dall’effetto generico che si verifica nel loro setting terapeutico, in generale designato come “effetto placebo”.

 

Questo problema è però affrontato in modo differente in ognuna di queste due Medicine.

 

In Biomedicina, ci si assicura che la valutazione dei farmaci in fase sperimentale abbia un effetto specifico, confrontando tale effetto in uno studio randomizzato e in cieco con un prodotto inerte (placebo). Questa è la nota procedura degli RCT[7] la quale, però, non si occupa dell’effetto placebo che, in ogni caso, il farmaco in questione acquisirà in sede clinica reale.

Così, ad esempio, la paroxetina non dimostra di essere superiore al placebo in molti studi controllati, ma la sua prescrizione è abituale nelle sindromi depressive poiché il suo effetto clinico risulta effettivo.

 

In pratica, la procedura degli RCT è finalizzata a dimostrare la “efficacia teorica” di un farmaco in condizioni controllate, il che è un assunto statistico e, per così dire, solo un punto di partenza. L’efficacia reale in sede clinica è regolata invece da variabili mai completamente identificabili che dipendono dall’individualità del paziente, del prescrittore, dal setting terapeutico e dal contesto socio-culturale. Ognuna di tali variabili è scomponibile in un universo di ulteriori variabili. L’insieme indefinito di tutte queste variabili è riassunto sotto il nome generico di “effetto placebo”.

 

Nella pratica della Medicina corrente, l’effetto specifico del farmaco è sempre mescolato con l’”effetto placebo”, ma i due tipi di effetti non vengono concretamente distinti in sede terapeutica finale. È esatto considerare che, sempre, il paziente riceve l’effetto combinato di farmaco+placebo, anche se l’effetto finale (od il mancato effetto) viene poi abitualmente riferito per convenzione all’effetto specifico del farmaco assunto nel caso singolo.

 

Un’altra valutazione obbligatoria nella Biomedicina corrente è la valutazione degli effetti del farmaco differenti da quello voluto, comprese le interazioni con altri farmaci (od altre sostanze) assunti, che vanno sotto il nome convenzionale di “effetti collaterali”. Da questi (oltre che dall’effetto del farmaco sul target voluto) dipende la tollerabilità del farmaco in questione nel singolo paziente e, quindi, il proseguimento della cura. In questo caso, possono intervenire fattori non specifici correlati a quelli placebo (effetto nocebo).

 

La Medicina Omeopatica opera diversamente in riferimento all’”effetto placebo”, come esporremo nel prosieguo.

 

Qui interessa innanzitutto rilevare come al perfezionamento delle procedure scientifiche teoriche di valutazione di un farmaco non corrisponda, in Medicina corrente, un parallelo sviluppo della nostra comprensione scientifica dell’”effetto placebo” nella realtà clinica.

Di questo si occupa il presente lavoro.

 

  

RICONSIDERARE SCIENTIFICAMENTE L’EFFETTO PLACEBO

 

In agraria l’effetto placebo non è considerato scientificamente, poiché si presuppone che le piante, non avendo apparato psichico, non possano essere soggetto a tale effetto per come è attualmente considerato.

Tuttavia, anche in questo campo, vi sono evidenze riproducibili di un effetto specifico di preparati omeopatici. Dal momento che l’efficacia dell’omeopatia viene da molte voci considerata dovuta interamente all’effetto placebo, è chiaro che si prospettano solo due possibilità: o si deve riconoscere all’omeopatia un effetto specifico non-placebo, ovvero il significato stesso di “effetto placebo” dev’essere inquadrato in diverso modo.

Questo è appunto lo scopo del presente lavoro. L’inquadramento proposto mira a soddisfare entrambe le esigenze: si potrebbe continuare a ritenere che l’omeopatia funzioni per effetto placebo, ma tale effetto non è riducibile, come comunemente si crede ai soli fenomeni suggestivi, ma ad una reale interazione di campo.

 

Condurremo un’osservazione non banale, che possa favorire una nostra comprensione percettiva del fenomeno di cui ci vogliamo occupare.

 

Un effetto placebo può guarire ed uno nocebo può uccidere, senza nessun tipo di interazione che quella sensoriale. Da un punto di vista fisico, si tratta di interazioni quanto-elettrodinamiche (visive e auditive, per esempio).

 

Queste parole che state leggendo stanno cambiando, in questo preciso momento, la chimica del vostro corpo. Se non ci credete non ha alcuna importanza, è quello che avviene. Questo tipo di effetto potrebbe avere una piena analogia con l’“effetto placebo”, se con tale termine designassimo un effetto puramente quanto-elettrodinamico. La modifica chimica durante questa lettura NON sta avvenendo perché voi siete particolarmente suggestionabili, ma soltanto perché siete dotati di sensazione.

 

Se questo discorso già vi irrita, potremmo addirittura misurare la variazione chimica avvenuta nel vostro corpo dosando le catecolamine circolanti. Se invece vi fa molto piacere, c’è stato un cambio nelle endorfine. Avviene velocemente.

 

Se questo fosse un libro sacro e voi pronti a recepirne l’insegnamento, il cambiamento chimico non sarebbe nemmeno il fatto rilevante, potrebbe essere molto più importante il verificarsi un cambiamento radicale nella vostra vita. Non è una cosa da niente. Ed è successo innumerevoli volte.

 

Se questo scritto fosse una lettera dal fronte, il messaggio di un amante, la minaccia di un nemico, un referto medico o semplicemente una cifra su una cartella esattoriale, potrebbe cambiare la vostra vita in tre secondi. Non è una cosa da niente. È successo innumerevoli volte.

 

Se la stessa identica frase, lo stesso nome, la stessa cifra fosse letta in un contesto diverso (la lettera non era la vostra, il referto era di vent’anni fa, la cifra era in un altro rigo) la vostra condizione sarebbe radicalmente diversa.

 

Non c’è alcuno scambio chimico tra un foglio di carta e il vostro corpo. Il tutto si riduce a un minimo input di fotoni. Eppure può decidere di una vita.

 

Questo, in alcune condizioni, può esser detto “effetto placebo” oppure no? Quello che è importante innanzitutto capire è che parlare di “effetto placebo” vuol dire differenziare nella vita reale (per pura supposizione cognitiva) un input dalle condizioni in cui esso si verifica.

 

L’effetto di una parola, per tacere di un sorriso, di un abbraccio e di un gesto sono un input o una condizione?

Dopo che abbiamo stabilito che uno psicofarmaco, un antibiotico o un rimedio omeopatico hanno un effetto che non è soltanto placebo, quanto siamo andati avanti nella comprensione scientifica di cosa davvero questo vuol dire e, soprattutto, di come adoperarlo? Dobbiamo saper osservare.

 

Dobbiamo accorgerci di quello che stiamo osservando. Non è detto che disponiamo ancora dei pieni strumenti concettuali per capire cosa stiamo osservando, ma il Metodo scientifico insegna che prima di ogni sperimentazione dobbiamo imparare a osservare; e la prima cosa che dovremmo osservare in modo imparziale è la fenomenologia di base in cui si verifica un cosiddetto “effetto placebo”.

 

  

COSA OSSERVIAMO QUANDO PARLIAMO DI “EFFETTO PLACEBO”

 

Parlare di “effetto placebo” contrapponendolo all’effetto specifico di un intervento è una convenzione teorica di comodo, poiché manca una teoria generale sugli “aspetti complessivi” dei vari settings che li differenzi dagli “aspetti specifici” propri di ciascuno di essi.

 

È del tutto chiaro che per capire il fenomeno si deve partire dalla sua osservazione reale, per la quale, fortunatamente, non manca materiale.

 

Riporto di seguito delle semplici e sintetiche evidenze fenomenologiche di alcuni settings tipici, per trarre da esse innanzitutto alcune caratteristiche generali di riferimento.

I settings sono: consueling/psicoterapia, cranio-sacrale, reiki/therapeutic touch, qigong/agopuntura, pranoterapia/pranic healing, omeopatia e, naturalmente, biomedicina; inoltre, veterinaria ed agraria.

 

CONSUELING / PSICOTERAPIA. Nel counseling l’operatore ascolta. È un ascolto attivo in quanto partecipe[8]. Ogni tanto l’operatore parla ed, ovviamente, è costantemente in atto una comunicazione non verbale.

Si presuppone non si faccia altro. Non c’è contatto fisico, non c’è prescrizione medicinale.

La psicoterapia è un consueling più strutturato. Notevole sottolineare che occorrono anni di ulteriore studio ed un lungo training personale per strutturare un consueling in senso psicoterapico.

 

CRANIO-SACRALE. Nel setting cranio-sacrale (al contrario di quello osteopatico e chiropratico) non si effettuano manipolazioni. Il soggetto ricevente è abitualmente disteso e l’operatore tocca delle parti del suo corpo ed ascolta le sensazioni di campo[9] a diverso “livello di profondità” e, nell’ascoltarle, può “favorirne il flusso e l’aggiustamento”.

 

REIKI / TERAPEUTIC TOUCH. Nel reiki, la posizione del ricevente è analoga a quella del setting cranio-sacrale, ma l’operatore non ha competenza d’ascolto, né specifiche intenzioni, se non quella di “fare da canale” ad una generica “energia guaritrice”. Talvolta l’operatore produce soggettivamente una visualizzazione (tipo “luce che si diffonde”) e/o intenzioni generiche di guarigione.

E’ simile al Therapeutic Touch, che è stato insegnato a personale infermieristico in alcuni reparti a rischio. In questo caso è stato condotto un esperimento comparativo verso un training in cui il “toccare il paziente” veniva invece eseguito senza che all’operatore venissero fornite istruzioni specifiche: esso sortiva un effetto totalmente differente; l’intenzione dell’operatore si dimostrava decisiva.

 

QIGONG / AGOPUNTURA. Il Qigong è un training complesso e impegnativo di movimenti/visualizzazioni/percezioni, unito ad un potenziamento delle proprie sensazioni cenestetiche[10]. Comprende anche modelli teorici, tecniche e procedure a diversi livelli di competenza. Può essere inquadrata come scienza nell’ambito della Medicina Tradizionale Cinese. Il contatto fisico tra operatore e soggetto non è obbligatorio e si può operare anche a distanza.

Nella agopuntura-moxibustione, invece, è richiesto minore impegno nel training personale cenestesico dell’operatore, ma molta più competenza tecnico-diagnostica. Il contenuto specifico di tale setting è la manipolazione diretta degli agopunti attraverso la agopuntura-moxibustione.

 

PRANOTERAPIA / PRANIC HEALING. La pranoterapia è, genericamente, la controparte occidentale del qigong, ma con minore inquadramento scientifico, teorico e procedurale. I settings comprendono azioni di qualità molto diversificata, dall’operato dei guaritori empirici a quello dei santi. Il contatto con il corpo non è ricercato e si può operare anche a distanza.

Il Pranic Healing è una codificazione moderna della pranoterapia tramite visualizzazioni.

 

 OMEOPATIA. È una competenza medica ben codificata. Il setting è simile a quello del consueling (opportunamente strutturato), e comprende al suo interno anche l’esame clinico-strumentale e tutto il normale setting biomedico. L’aspetto specifico è la prescrizione di medicinali omeopatici (da soli ovvero in associazione o alternanza con quelli convenzionali).

 

BIOMEDICINA. L’operatore è nettamente orientato verso gli aspetti specifici del setting (farmacologici o interventistici). Egli non ha particolare competenza sugli aspetti di consueling o nelle tecniche di contatto fisico. Ne risulta un setting tecnico ed implicitamente direttivo (il che è estremamente utile in condizioni acute e di emergenza riguardanti il corpo). Nel nostro contesto sanitario, questo setting risente più degli altri del significato socio-culturale preminente che si assegna a questa Medicina.

 

VETERINARIA. Gli animali (come gli infanti) sono estranei ai condizionamenti culturali acquisiti della percezione dicotomica corpo/mente e io/altro, e reagiscono direttamente e complessivamente al campo relazionale etologico di pertinenza in cui sono inseriti. Nel caso di animali d’affezione, tale campo coinvolge marcatamente anche gli umani care-givers. Negli animali d’allevamento in branchi e negli stabulari, l’interazione con gli umani è differente: la parte specifica del setting è costituita dall’alimentazione, dall’organizzazione degli spazi ambientali ed dalle terapie farmacologiche.

 

AGRARIA. Cosa si intende quando si afferma che una tale persona ha “il pollice verde” ed, ovviamente, anche il caso contrario? L’interazione di campo tra un umano e le sue coltivazioni è un ambito noto ma poco approfondito. Le applicazioni della omeopatia in agraria aprono la possibilità di indagine anche verso forme di “terapie di riequilibrio sistemico” non mediate da intrusioni chimiche massive.

 

Questo escursus osservazionale preventivo ha soltanto l’obbiettivo di porci di fronte ad un fenomeno nel suo aspetto più generale.

 

Ho utilizzato due termini in genere poco usati nella Medicina corrente:  “campo di interazione” e “intenzione dell’operatore”. Appositamente.

 

Il concetto di “campo” ha solide basi di tipo biofisico[11] che, ancorché non sempre approfondite nella didattica medica non specialistica, dobbiamo per brevità in questa sede considerare scientificamente note.

 

Il concetto di “intenzione” (nel qigong: yishi) consiste nel veicolare (più o meno consapevolmente) una “informazione”[12] nel campo di interazione considerato. Si tratta, evidentemente, di un fenomeno corrente e ineludibile in ogni interazione umana con altri esseri e con le situazioni della vita.

 

Un terzo ed ultimo termine che ho adoperato, in deroga a quelli consentiti in Biomedicina,  è “energie” (qi in MTC, prana in Yoga), che non è un termine generico (come potrebbe apparire ai non addetti ai lavori) ma si riferisce alle sistematizzazioni sull’argomento proprie di contesti culturali che hanno sviluppato studi sulle funzioni mente/corpo che non utilizzano il modello dicotomico cartesiano di distinzione a-priori dei due termini (nella realtà, non esiste soluzione di continuo tra evento mentale ed evento organico: i due termini sono definibili solo attraverso convenzioni).

 

È opportuno notare che i settings sopra schematizzati, pur tra loro altamente disomogenei, si sono tuttavia potuti descrivere in termini omogenei appunto grazie all’assunzione dei concetti proposti di “interazione di campo” e “intenzione/informazione”. Osservarli invece nei termini correnti di “effetto placebo”[13] distorce l’osservazione e la limita drasticamente, riconducendola ad una riduzione convenzionale a-priori[14] nell’ambito della dicotomia corpo/mente .

Questo semplice discorso, pertanto, svolge una osservazione scientifica non riduttiva a-priori del fenomeno osservato. Se, invece, non si accetta l’abbandono della convenzione dicotomica, il fenomeno, semplicemente, non può essere osservato[15].  

 

 

“EFFETTO PLACEBO” O “INTERAZIONE DI CAMPO” ?

 

Che cos’è placebo in una interazione complessa, continuativa e satura di variabili come quella fra un terapeuta ed un paziente?

 

L’effetto complessivo di campo è solo uno sfondo dell’effetto specifico di un setting? Oppure l’effetto specifico è solo un aspetto dell’effetto di campo? Le due cose sono effettivamente separabili?

 

In realtà, le due cose non sono MAI separabili, nemmeno nell’autoprescrizione di un medicinale.

 

Se vogliamo proseguire l’osservazione in profondità accettando la complessità del reale, dovremmo adoperare schemi percettivi adeguati ad indagare un fenomeno complesso. Il che vorrebbe dire sostituire la logica riduttiva dicotomica a-priori con un Pensiero Sistemico.

 

La percezione sistemica si dispiega all’osservatore quando il Metodo Scientifico è adoperato contemporaneamente in prima, seconda e terza persona. Tale abilità percettiva si può acquisire.

Francisco Varela l’ha introdotta, parzialmente, in Neuroscienze.

Hahnemann, più dettagliatamente, in Medicina. Fritjof Capra ha denominato il Metodo di Hahnemann “Biofenomenologico”.

 

Piuttosto che sostenere un discorso teorico sul Pensiero Sistemico e la Scienza della Complessità in Medicina, è pertanto direttamente e praticamente possibile osservare come il Metodo Biofenomenologico venga attualmente applicato dopo duecento anni di corroborazione e perfezionamento sul campo, e come si pone in riferimento all’effetto placebo.

 

 

IL METODO BIOFENOMENOLOGICO

 

Essendo fondante per la costruzione di una Scienza, il Metodo Scientifico dev’essere adoperato sia in fase osservazionale che sperimentale.

 

Così è in Biomedicina, dove il Metodo è rivolto ai dati obbiettivi (in terza persona) sia nella fase di osservazione sperimentale, sia in quella applicativa, sia nella costruzione dei modelli di funzionamento.

 

Analogamente, in ognuna di queste fasi, il Metodo Biofenomenologico è adoperato in omeopatia parallelamente verso i dati obbiettivi, soggettivi e relazionali (in prima, seconda e terza persona), come adesso vedremo.

 

La prima parte della sperimentazione di farmacologia biologica di tipo biofenomenologico (il cosiddetto “proving omeopatico”) consiste nella raccolta dei dati complessivi (in prima, seconda e terza persona) in volontari sani reclutati nell’ambito di un setting sperimentale. La procedura è molto complessa e, per quello che qui interessa, essa determina l’acquisizione finale di un elenco di segni e sintomi riferibili al medicinale testato. Tale schema sintomatologico complessivo ricavato (cosiddetta “patogenesia del rimedio”) comprende, evidentemente, dati provenienti dal medicinale testato e dati provenienti dal setting sperimentale. Il perfezionamento delle tecniche di proving ha portato, nel tempo, all’introduzione di metodi di controllo degli output come il gruppo di controllo in cieco con placebo, le analisi statistiche e l’accurata valutazione individuale delle modifiche fenomenologiche dichiarate dai provers.

 

La seconda parte della sperimentazione omeopatica è di tipo clinico, ovvero, come oggi si dice per i farmaci, “dopo la loro immissione in commercio”.

 

Secondo i modelli omeopatici, tale medicinale sarà prescritto se il quadro complessivo del singolo paziente corrisponderà a quello della “patogenesia del rimedio”. In questo caso, se si otterrà una modificazione clinica osservabile significativa di qualcuno dei segni della patogenesia, quel sintomo riceverà una corroborazione clinica positiva.

 

Il fine ultimo è quello di disporre di rimedi ben sperimentati e ben corroborati clinicamente e, pertanto, di effetto affidabile, se adoperati secondo l’esatto modello di prescrizione.

 

 Come si vede sin qui, la sperimentazione, l’osservazione clinica e la procedura prescrittiva omeopatiche rispondono al proprio Metodo biofenomenologico, che risolve la complessità fenomenologica reale con il minimo di riduzionismo: è sempre considerato il quadro complessivo del setting individuale; non viene operata nessuna separazione tra dati in prima, seconda e terza persona; non viene introdotta nessuna manipolazione concettuale a-priori dei dati acquisiti; e, cosa qui rilevante, non è necessario distinguere a-priori gli effetti specifici del medicinale da quelli del campo.

L’eventuale bias a riguardo è risolto, gradualmente nel tempo, attraverso nuove sperimentazioni del rimedio in settings diversi ed attraverso le procedure di corroborazione clinica. È evidente, d’altra parte, che le evidenze d’effetto reale di un medicinale omeopatico abbisognano di tempi assai lunghi di studio e verifica che spesso trascendono una generazione. Per tale motivo, i rimedi più studiati sono anche quelli maggiormente impiegati.

 

L’effetto di suggestione, nel Metodo biofenomenologico, è tenuto distinto da quello specifico soltanto in fase di verifica clinica nel caso singolo. In seguito all’assunzione di un rimedio, infatti e come universalmente noto, si può verificare un effetto che non sia dovuto al potere terapeutico del medicinale ma all’effetto placebo. Le procedure di valutazione dell’effetto clinico, pertanto, devono saper differenziare le due cose.

Già Hahnemann indicò i criteri per evidenziare quando un miglioramento del paziente era da ascrivere ad un effetto suggestivo, in particolare: l’effetto non risulta coerente con la patogenesia del rimedio assunto, l’effetto è transitorio e non evolutivo nella sua azione.

 

In omeopatia, inoltre, un certo tipo di effetto placebo è adoperato deliberatamente in una occasione particolare: quando si vuole osservare l’azione a lunga distanza di una somministrazione medicinale e ne si vuole supportare l’effetto senza interferire con un'altra somministrazione, allora dopo la prima prescrizione si somministra deliberatamente un placebo come seconda prescrizione (in genere ripetuto giornalmente) per il periodo di tempo necessario a valutare l’effetto della prima prescrizione.

 

Il Metodo biofenomenologico, pertanto, conosce bene almeno un paio di cose importanti sull’effetto placebo, che utilizza correntemente e con una padronanza sconosciuta in Biomedicina: sa riconoscerlo in sede clinica e sa adoperarlo deliberatamente.

 

Inoltre, il Metodo Biofenomenologico non differenzia l’effetto placebo dall’energia di campo prodotta dal setting, perché non ne ha necessità. Possiede infatti metodiche, procedure e modelli per orientare gli effetti “specifici ed aspecifici” del setting verso il fine unico di un miglioramento prognostico individuale effettivo e duraturo (quello che, nei casi cronici, oggi potrebbe essere spiegato nei termini di una riprogrammazione epigenetica).

 

Non è tutto qui.

 

Il Metodo Biofenomenologico è soltanto un modo utile di trattare l’effetto placebo in Medicina, ma non ne riduce la portata.

Ricordo che l’effetto specifico dei medicinali omeopatici si inserisce nel quadro assai più vasto delle proprietà quanto-elettrodinamiche dell’”acqua lavorata” che soltanto in tempi recentissimi abbiamo cominciato ad indagare scientificamente.

E si inserisce inoltre nelle possibilità terapeutiche insite nelle relazioni tra i campi relazionali tra individui e delle interazioni mente-corpo, parimenti ambiti di studio scientifico attuale.

Per tali ricerche occorrono competenze interdisciplinari integrate ancora difficili da realizzare in Medicina. In questi campi di studio, qualora richiesta, la competenza omeopatica potrebbe essere di aiuto concreto.

 

 

PRIME CONCLUSIONI

 

Ritengo che per una comprensione dei vari aspetti del cosiddetto “effetto placebo in Medicina” si potrebbero adoperare due o tre termini che consentono un migliore inquadramento del fenomeno. Tali termini sono: “effetti di campo” e “intenzione” (e, se vogliamo, “energie”).

A questi termini, qui semplicemente accennati, corrispondono concetti del tutto assodati ed ampiamente sviluppati in altre scienze ed in altre Medicine.

 

Il definire la Medicina Omeopatica “non scientifica” in quanto le sue evidenze sarebbero riconducibili al solo effetto placebo, appare innanzitutto una argomentazione ignorante dei fatti metodologici omeopatici.

Continuare a guardare all’”effetto placebo” per spiegare gli effetti positivi dell’omeopatia serve a  mantenere nella scienza e nella Medicina corrente dei “concetti scientifici stabiliti”; è un argomento, cioè, giustificativo (quello che nell’epistemologia della fine del secolo scorso veniva definito “un argomento ad hoc”).

Secondo la moderna epistemologia, l’introduzione di un tale argomento, suggerirebbe di definire la scienza che lo adopera come “pseudoscienza” e la Medicina che se ne serve come “pseudo-Medicina”. Da questo punto di vista, la Biomedicina sarebbe una “pseudo-scienza”. Inversamente, la Biomedicina è solita ritenere “pseudoscienza” l’Omeopatia. Ma il concetto stesso di “demarcazione tra scienza e pseudoscienza” si è già dimostrato epistemologicamente insignificante quando venga effettivamente utilizzato e, in buona sostanza, argomento “di comodo” fin dai tempi dello stesso Popper che lo propose.

 

Il problema epistemologico in Biomedicina, in Omeopatia e nelle Scienze Psicologiche è che, nella pratica, essa non sono ancora sufficientemente oneste per allargare il loro orizzonte d’indagine alla Fisica.

Nel caso specifico, il pensiero scientifico corrente non pare adeguato ad adoperare il concetto di “effetto placebo” in modo adeguato alla realtà, mentre una sua interdisciplinarità concreta con la Fisica è in grado di sviluppare una maggiore conoscenza del fenomeno.

 

 

Ciro D’Arpa, 01.2020

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] At the psychological level, much work remains to be done to disentangle the psychological mechanisms that may be driving these common activations and placebo effects.”

 

[2] “ Clearly, a complete psychological explanation of placebo effects remains to be elucidated.

However, as evidence from the neural and psychological levels is gathered and integrated, we are gaining a surer and more complete understanding of the human self-regulatory faculties with which evolution has equipped us for effective social, emotional, and physical health”.

 

[3] Tale impostazione metodologica si considera introdotta in Medicina da Claude Bernard (Introduzione alla Medicina Sperimentale, 1845).

[4] Tale impostazione metodologica descrittiva è stata introdotta in Medicina da Karl Jaspers (Psicopatologia Generale, 1913)

[5] L’ambiente esterno sino ai confini dell’universo, così come quello atomico ed, ovviamente, anche il nostro mondo fenomenico sensoriale è completamente immerso nelle interazioni del campo quanto-elettromagnetico, risultante dalle Forze Fisiche esistenti in Natura. Cfr. ad es: Feynman, QED.

[6] Un esempio di modello scientifico interdisciplinare è modernamente fornito dalla Psiconeuroimmunoendocrinologia (PNEI). Esso pone tuttavia problemi nuovi in riferimento alla sua delimitazione (come, ad esempio, la mancata integrazione degli aspetti metabolici) e soprattutto metodologici (la necessità di gestire i dati nell’ambito di un Paradigma della Complessità). 

[7] Tali studi valutano anche gli effetti collaterali del farmaco, la sua sicurezza, i rapporti costo/beneficio.

[8] Ciò porta direttamente ad evidenziare il rapporto fra empatia ed osservazione medica come problema centrale del Metodo Scientifico. Cfr: F. Varela, Neurofenomenologia, 1997.

[9] Il concetto di “campo” viene chiarito nel prosieguo.

[10] C’è un analogo in molte tradizioni, ad es. nei sistemi classici Yoga.

[11]  Cfr. in: http://www.dottcirodarpa.it/informazioni-di-biofisica-umana

[12]  Il concetto di “informazione” non è adoperato nel Pensiero Sistemico classico (cfr. ad es. F. Capra), è invece corrente nelle Scienze della Complessità, in Biofisica, in Fisica quantistica, in Informatica e nelle Scienze dell’informazione.

[13]L’effetto placebo consiste in un cambiamento organico o mentale in un soggetto che attribuisce un significato simbolico a un evento o a un determinato oggetto (per es., una sostanza) in ambito sanitario. L’effetto placebo dipende dal contesto psicosociale nel quale si attua la terapia, costituito da qualsiasi oggetto o persona in grado di comunicare al paziente che si sta effettuando una terapia e che quindi si prevede una riduzione nel tempo dei sintomi da lui manifestati. Quindi l’effetto placebo è un fenomeno psicobiologico che coinvolge meccanismi molto complessi a livello cerebrale, e non si deve confondere con altri fenomeni, quali la remissione spontanea di un sintomo o di una malattia. Non esiste un solo effetto placebo ma molti, con differenti meccanismi e in differenti apparati dell’organismo”. [Enciclopedia Treccani]

 

[14] L’effetto placebo viene attribuito “esclusivamente al modo in cui mente e cervello rispondono al contesto e non ad un effetto diretto del trattamento, e le conseguenze positive sul corpo sono causate dalle risposte mentali e cerebrali che hanno luogo in risposta al contesto che ci circonda in quel momento”.  Si considerano provviste di un elevato “effetto placebo” anche le carezze, la musica, la voce, le relazioni umane positive. E le sue “cause” sono considerate “l’attesa di un miglioramento” e/o un condizionamento, che determinano il rilascio nell’organismo di sostanze “terapeutiche”, come le endorfine o l’adrenalina.

 

[15] In qualsiasi scienza i postulati convenzionalmente accettati determinano i dati osservabili. I sapienti dell’epoca che guardarono nel cannocchiale di Galilei non videro niente, poterono argomentare ma non assumere i dati. Per lo stesso motivo se la Biomedicina non conosce la Biofisica potrà argomentare su di essa, ma non potrà accoglierne i dati.

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